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L'augurio di Don Domenico Spagnoli: 'Riscopriamo il valore dell'incontro'

Le riflessioni del parroco di Santa Maria Maggiore nella celebrazione del 'Te Deum'

a cura della redazione
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Nella sera del 31 dicembre, come da tradizione, si è tenuta nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Vasto, la celebrazione del 'Te Deum'.

Di seguito le riflessioni e gli auguri del parroco, Don Domenico Spagnoli.

Abbiamo ascoltato i 365 tocchi del campanone di Santa Maria che annunciavano alla città la solenne celebrazione del Te Deum. I segni del passato vogliono ancora dire qualcosa all’uomo di oggi. La campana, con la sua nota, convoca, richiama, scandisce un tempo per ricordare che non tutti i giorni sono uguali. Si avvicina un tempo da celebrare. La Messa, l’adorazione, la predicazione e il canto del Te Deum sottolineano un evento.

Dalla storia sappiamo che questa funzione originariamente consisteva nel solenne canto dell’inno di ringraziamento per il ritorno nel 1707 del marchese don Cesare Michelangelo d’Avalos nei suoi feudi dopo sette anni di esilio a Vienna. A partire dal 1792 però si incentivò una cerimonia più articolata con l’aggiunta della predica voluta dal benefattore lombardo Giovanni Barbisio che lasciò alla chiesa un canone annuo di 17 ducati per sostenere le spese del predicatore. E da allora la nostra gente si ritrova anno dopo anno, per ringraziare Dio non solo con le parole ma con il canto, segno di letizia e di gratuità. Perché il tempo è quanto di più prezioso esista, più prezioso dell’oro, del petrolio, dell’acqua visto che non è reperibile in natura né lo si può produrre in nessun laboratorio. Esso, piaccia o no, è un dono che si può solo ricevere. Ma sebbene sia impossibile rubare il tempo, impensabile anche solo aggiungere una sola ora alla propria vita, il cristiano non ha diritto di rattristarsi; Papa Francesco è la testimonianza vivente di quanto sto dicendo; Egli è la sorpresa di Dio di quest'anno che volge al termine. Voglio ripetere le sue parole: “nemmeno il peggiore dei drammi dovrà gettare nella disperazione chi crede in Dio”.

Il tempo può educare il cuore dell’uomo e della donna. Occorre imparare a vivere con umiltà ponendo attenzione alla differenza tra il momento e il tempo. Una cosa è vivere nel momento altro è vivere nel tempo. Il cristiano sa vivere entrambe le dimensioni. Il momento è ciò che abbiamo in mano adesso, un attimo di gioia, un sapore di successo, una nostalgia che ci consuma: ma questo non è il tempo, perché il momento presente passa, la scena di questo mondo passa. Forse noi possiamo sentirci padroni del momento ma stiamo attenti a non crederci padroni del tempo: il tempo non è nostro, il tempo è di Dio. Qualcuno di noi forse è diventato o potrà diventare sovrano del momento ma c’è un solo Sovrano del Tempo ed è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse troviamo scritto: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente” (Ap 1,17). Per conoscere dunque i veri segni, per conoscere la strada che devo prendere in questo momento è necessario il dono del discernimento e della preghiera. Mentre, per interpretare il tempo, occorre una virtù teologale, una virtù che ci deve essere data: la speranza. Preghiera e discernimento per il momento, per decidere passo passo e…speranza per interpretare il passato e prepararci al futuro. Il Tempo va interpretato nella Speranza. “Il cristiano sa aspettare il Signore in ogni momento, ma spera nel Signore alla fine dei tempi”. Quando Giovanni scrive il libro dell’Apocalisse i giorni sono duri: l’Apostolo è in esilio nell’isola di Patmos, i cristiani sono una minoranza perseguitata e il Signore tarda a venire. Non c’è da scoraggiarsi però perché la storia, anche nelle sue manifestazioni più oscure e preoccupanti, non sfugge alla signoria dell’Unico che sa leggerne il libro e aiutare a leggerlo. I nostri giorni non sono diversi da quelli dell’autore del Libro sacro ma dobbiamo avere l’umiltà di andare da Colui che sa leggere la storia e ci insegna ad interpretarla. Anche nelle grandi fragilità. Sì, perché la nostra vita è sempre una grande incompiuta: riconoscere questo ci aiuta a vivere da persone equilibrate, ad accettare il limite di se stessi e delle persone che ci circondano e a saper fare tutta la nostra parte nella certezza che Dio, solo Lui è il compimento.

In questo quadro segnato dalla speranza mi permetto di interrogarmi di fronte ad alcune sfide che, senza alcuna pretesa di esaustività, oggi si affacciano nel nostro presente e feriscono il mio cuore di prete. Una ferita che mi scomoda e che chiede impegno, balsamo, pazienza e, spero, collaborazione da parte di tutti. Individuo dunque tre ferite.

La prima è la incapacità di pensare e programmare in vista delle urgenze del futuro. Mi servo di una immagine per spiegarmi. Tutta la nostra Italia è segnata dal dissesto idrogeologico e, in occasione di piogge più o meno eccezionali, si verificano frane, voragini, alluvioni con il drammatico conto dei morti. Dopo le tragedie si aprono mille dibattiti ma non si interviene per consolidare il terreno ed educare la gente ad uno sviluppo ecosostenibile. Questo fatto è espressione anche di ciò che avviene nel rapporto educativo. Si pensa ad accontentare il bisogno primario, a volte il capriccio di un attimo, si mira ad accontentare immediatamente i ragazzi o la gente senza voler investire veramente nel futuro. Ci si accontenta del consenso immediato senza saper prevenire i problemi. Quando si agisce così, quando non si vuole più dire un “no” motivato, quando non si vuole investire tempo con i ragazzi, quando “va bene tutto purché mi lascino in pace” si creano voragini nella vita familiare e sociale. L’educazione, la buona educazione, è la strada per ritrovare i rapporti. Ovviamente il mio intervento desidera offrire un orizzonte costruttivo: la buona notizia è che il cristiano sa da dove attingere uno stile umano: dal pedagogo che è Cristo. Tutti possono imparare a pensare con Cristo. Egli ha restituito dignità alle persone perché potessero camminare da sole. Anche noi, genitori, educatori, politici, insegnanti dobbiamo imparare ad andare alla radice dei problemi per aggredirli e pensare ad edificare giovani robusti, in grado di trasformare una crisi in un opportunità investendo sul futuro. L'incoraggiamento è per tutti: nella vita punta alla luna, male che va atterrerai sulle stelle.

La seconda ferita a mio giudizio è dettata dall’isolamento in cui tutti siamo tentati di ripiegarci. Quando in una famiglia viene meno l'incrocio degli sguardi tra le generazioni, quando i ragazzi perdono il contatto reale con il volto dell’altro, quando non si trova più il tempo per riconoscere e condividere il vissuto, quando ci si rifugia nei giochi elettronici, quando il pollice sullo schermo è più allenato della mano, della mano che deve stringere l'altra mano, dell'abbraccio che avvolge, della carezza piena di gratitudine, la situazione si fa preoccupante. Anche qui la buona notizia è che l’uomo - prima o poi - si stancherà di tutto meno che delle relazioni vere. Gli adulti sono ancora necessari perché i ragazzi e i giovani possano imparare a vivere...non da uno schermo ma da un incontro. Forse devono anche imparare ad ascoltare qualcosa di significativo dalla bocca e dal cuore degli adulti, forse devono potersi accorgere che la vita degli adulti non è solo fatta di sacrifici, di delusioni ma anche di soddisfazioni. C'è ancora bisogno di adulti significativi. Ce lo chiedono a volte con i loro silenzi i nostri giovani. Abbiamo bisogno di adulti affidabili, contenti che non si sostituiscano ai ragazzi e che non giochino a fare gli adolescenti, ma che percorrano le strade difficili della vita, sostenuti dai valori umani e spirituali di cui è ricco il Vangelo. Capaci di imparare anche dalle sconfitte per insegnare ai piccoli come ci si rialza. Cari adulti, i ragazzi e i giovani non possono fare a meno di voi, per imparare a vivere hanno bisogno di voi più che di mille informazioni scaricabili da internet. La vita si impara solo dalla vita. Aiutateli ad aprire gli occhi e ad uscire dall’isolamento attraendoli su sentieri luminosi. Con le parole di un detto indiano sintetizzo: “non maledire le tenebre ma accendi una candela”

Una terza ferita che individuo è la sfiducia. Quando di fronte alle sconfitte e alle delusioni si smette di cercare un lavoro, un futuro, quando si è vittime della incostanza, quando si inviano decine di curricula senza risposta, forte è la tentazione di fermarsi. A volte ci sentiamo impotenti. Mi permetto però, con tanto rispetto, di incoraggiare tutti ad una ricarica di passione per il bene. Nessuna vita è inutile e un giorno è perduto solo nella misura in cui non ci si dona. Troppe sono le fortune e le grazie di cui non ci si rende conto. Continuiamo a cercare, continuiamo a donare ciò che siamo e fuggiamo la tentazione di annientarci nel divertimento vuoto di chi - per non pensare - preferisce annegare nelle notti fatte di eccessi, di illusioni. Tante sono le occasioni per riscoprirsi utili e capaci di donare se stessi. Qui penso ai tanti ammalati, agli anziani segnati da solitudine, persone che hanno tanto da raccontare e da condividere. Visitare, ascoltare dedicare tempo a costoro potrebbe far toccare con mano l'esperienza del dono di amore. Quanto tempo perso dietro al nulla potrebbe essere impiegato verso chi è bisognoso di tutto. Ogni crisi può diventare opportunità per trasformare un punto debole della nostra vita in una occasione. L'aforisma popolare recita: più forte è il vento, tanto più robusto cresce l'albero.

I miracoli accadono ancora ma riesce ad accorgersene solo l’occhio allenato. La nostra vita è una chiamata alla lode. Ognuno di noi deve riscoprire i tanti motivi di gratitudine a Dio. “Quale che sia l’andamento dell’anno, facile o difficile, sterile o ricco di frutti, noi rendiamo grazie a Dio. C’è una saggezza: nonostante tutto c’è del bene nel mondo; e questo bene è destinato a vincere, grazie a Dio” (Benedetto XVI, Te Deum 2012). Non possiamo fermarci alle notizie se vogliamo capire il mondo e la vita; dobbiamo essere capaci di sostare nel silenzio, nella meditazione, nella riflessione calma e prolungata; dobbiamo saperci fermare per pensare. Perché siamo oltre ciò che si vede. Noi apparteniamo a Dio che ci ha affidati a questo tempo. Nel nostro tempo dobbiamo cercare la luce e rispondere. Il Te Deum, risalente al IV secolo, è scritto in un momento in cui i cristiani erano ancora minoranza eppure c’è un’allegrezza in quelle parole perché quella minoranza si trova nella maggioranza dell’universo di Dio: “tutta la terra ti adora… i cieli e la terra, il coro degli apostoli, la candida schiera dei martiri…”. Di questa realtà più grande facciamo parte anche noi e per questo non possiamo scoraggiarci perché leggiamo la storia e la interpretiamo dalla parte di Dio. E Dio è sempre dalla parte dell’uomo. Mettiamoci noi dunque dalla parte di Dio per non vivere nella confusione. Concludo con una preghiera del Vescovo Tonino Bello:

Eccoci Signore, davanti a Te.

Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato.

Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto,

o abbiamo coperto chissà quali interminabili rettilinei.

È perché, purtroppo, molti passi li abbiamo consumati seguendo la nostra testardaggine

e non le indicazioni della tua Parola.

Ad ogni modo vogliamo ringraziarti ugualmente,

perché facendoci contemplare la povertà del raccolto,

ci aiuti a capire che senza di Te non possiamo fare nulla.

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