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Notoletta sull'uso di un nome

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Sono infastidito, molto infastidito, dell’uso che viene fatto del toponimo «Vasto». Ma fin quando il fastidio riguarda solo me, poco male. Non posso far niente. Al contrario, nel momento in cui il termine viene stravolto, non si parla più di querula lamentela, ma di qualcosa che riguarda l’identità storico-linguistica di una comunità. E su questo non si discute.

Chi studia volgare, dialetto e, in generale, fonetica storica non può accettare abusi linguistici. Di conseguenza mi trovo, mio malgrado, costretto a intervenire con questa notoletta. E senza ulteriori preamboli, entro subito in argomento. Faccio subito presente che «Il Vasto», toponimo di questa città, è di genere maschile, non femminile. È vero che, per molti, la grammatica è un peso da cui sarebbe bene liberarsi. Ma fin quando esisterà un sistema ordinato di regole, sarà buona cosa ricordare che l’articolo concorda sempre con il genere: il maschile con il maschile, il femminile con il femminile (Caspita. Davvero una novità!).

A differenza del latino, la lingua italiana – che, come tutti sanno, viene codificata solo nel 1525 con le «Prose della volgar lingua» di Pietro Bembo, il vastese, come tutti gli altri volgari italiani, non conosce il neutro. In qualche caso si potrebbe anche pensare che il volgare vastese sia riuscito a determinare il cambio di genere.

Faccio l’esempio del neutro «fĭcum» che in vastese (mi riferisco agli «Statuti» in volgare di metà sec. XVI) si presenta come «fīcŏra», al femminile (in dialetto, «la fękǝrǝ»). Nel «Catasto Napoleonico» (1813) è attesta una località denominata «Piano della Ficora». In realtà, le cose non stanno in questi termini. Nei fatti, il lemma da cui deriva è il latino femminile «fīcŭla(m)» che, come si può ben intendere, ha il normale esito al femminile «fīcŏra». Nulla di più. Stando così le cose, mi si dovrebbero foneticamente spiegare le ragioni che presuppongono la trasformazione di genere «del Vasto» in «della Vasto».

Mi chiedo: è possibile parlare di antichi brani urbanistico-edilizi di una città, quando di questa si usa a sproposito perfino il nome? Nella trecentesca «Cronaca» in volgare di Buccio di Ranallo il toponimo utilizzato è «lo Guasto». Tanto nel volgare quanto nel dialetto vastese le velari -ga-, -go-, -gu- precedute dalla -u- maschile dittongano insieme con la spirantizzazione della «g» «lo Guasto» diventa «lu ɣṷåśtǝ». Nella fonetica dialettale, il nesso «ɣṷå» passa a «ṷå» velarizzando nuovamente. E per mantenere memoria dell’originaria voce che incrocia l’antico-alto tedesco «*wosti», dove il riferimento è «guastare» non «vastare», la pronuncia è «ɣṷå» non «ṷå». Se fosse stato solo latino «vastare», avrebbe avuto l’esito «ṷåśtare» proprio come accade per il latino «vĕntu(m)» che in dialetto vastese diventa «lu ṷęndǝ».

Ma appunto: i fatti linguistici non stanno questo modo Ripeto. Sono infastidito e stanco di leggere il nome stravolto della mia città: la Vasto, non il Vasto. Se si premette il termine «città» è lecito utilizzare anche il femminile accordato città: la Città del Vasto (del resto, titolo concesso da Carlo III d’Austria al Vasto Aimone in data 29 marzo 1710). Qui non si tratta di un locativo o di uno stato in luogo. Molto più semplicemente di un genitivo correttamente usato al maschile. Ma dato che il nome ufficiale della città è «Vasto», stando al Decreto luogotenenziale del 1944, non trovo le ragioni per mutare il toponimo. Se si vuole cambiarlo in Città del Vasto – importante perché mantiene l’articolo storico e, per questo, motivo mi trovo d’accordo – occorre un nuovo DPR. Si capisce bene che si può accettare l’espressione «l’altra Città del Vasto». Ma per cortesia, si eviti di usare espressioni come «l’altra Vasto» o di sintagmi similari. La ragione è semplice: non si può parlare di una città se, nominalmente, essa non è mai esistita!

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