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Quando mangiavamo lumache, ricci, rane e tassi

Siamo davvero quello che mangiamo?

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Quando diciamo che il cibo è un fatto culturale non sbagliamo. E se diciamo che la Natura stessa è Cultura, siamo ancora più nel giusto. 

La Cultura affonda le sue radici nella terra sulla quale i nostri piedi poggiano. Le civiltà si sono costruite sui luoghi fisici, facendo sempre di necessità virtù. 

Se qualcuno ci presentasse oggi un tasso al forno probabilmente ci farebbe inorridire, eppure Mariangela Schiazza nella sua “Guida alla cucina tradizionale della provincia di Chieti” scrive testualmente che la causa è il nostro “allontanamento dalla Natura”. Per essere più moderati, possiamo dire che oggi non è più necessario mangiare ricci e tassi, poiché abbiamo ben altre possibilità, ma in alcune zone del Molise e dell’entroterra Vastese ancora si mangiano le rane, e in alcune zone montane le lumache sono ancora considerate una prelibatezza. 

Addirittura le rane erano considerate, in passato, un cibo così prelibato da dover essere condiviso con i notabili del paese, lu mediche e lu speziale. Invece la raccolta, preparazione e cottura delle ciammaiche (Helix aspersa, chiocciola di terra), era (e forse è ancora) lenta e ritualistica, e forse persiste proprio perché trasporta con sé qualcosa di magico: bisogna attendere un forte temporale estivo o finalmente il piovoso ed umido settembre per iniziarne la raccolta e poterle mangiare, secondo alcune ricette, dopo quasi un mese di tempo! Forse è proprio l’attesa a rendere le cose più dense e sentite.

Io, forse troppo giovane, non sono mai riuscita a mangiare le lumache. Anzi, ricordo che quando alcuni parenti in montagna le raccoglievano, a volte andavo a liberarle durante la notte. Forse è giusto così, forse il contatto con la Natura è anche il contatto con il proprio intimo sentire, e l’evoluzione della cultura del cibo deve tener conto anche del tempo e delle idee che passano e cambiano. 

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