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Non “bambola”, ma mirabilmente "donna", nella vita come nell’arte

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Nei giorni scorsi, mentre mi approssimavo alla Galleria Mattioli, riguardando a me dinanzi, la Chiesa di San Giuseppe, nel fresco alito di vento della sera, mi appariva come non mai simbolo di questa cittadina di provincia, raccolta in una sua misura urbana e storica. In tale habitat cittadino, ripensando al tema di fondo nel quale s’inseriva anche la mostra d’arte che mi recavo a visitare – “La donna e non solo” – e fotografando l’edificio sacro, mi sono sorpreso ad osservare nell’inquadratura delle figure femminili che, nei loro gesti di vita urbana quotidiana, costituivano una chiara rappresentazione della vita (non voglio dire “condizione”) della donna nell’età dell’oggi. Donne che, sia pure in provincia, vivono una propria esistenza pienamente libera, seppur inserita e ben attiva in un proprio ambiente famigliare, lavorativo e sociale.
Perché dunque – mi son detto – voler, sia pure per virtuosa negazione e implicita opposizione, considerare  la nostra ideale “metà del cielo” come ancora relegata o costretta alla “Casa di bambola”, mentre la nostra “donna di casa” “una bambola” non lo è più, in sé e neppure nell’immaginario maschile? Quantomeno nella più parte di esse?

In tale stato d’animo, dunque, entrato nell’Esposizione, mi sono soffermato ad apprezzare, in particolare, quel che i manufatti d’arte di G. Ciccarone e di L. Serafino, di per sé e in una felice commistione espositiva, hanno in me suscitato a livello di immagine estetica e come stimolo euristico di quante altre ‘figure’ e idee  del genere tengo in me sedimentate e custodite. Per cui, in una personale seppur limitata gallery, pubblicata su quiquotidiano.it, ho inteso mostrare quanto da me rilevato e ritenuto particolarmente espressive sia di quanto singolarmente realizzato dal singolo artista, come della insopprimibile idea del femmineo che esse producono in chi guarda, traendone una piacevolezza (di vario genere) e uno stimolo alla riflessione, sentimentale oltre che intellettiva.

La grazia e insieme la melanconia, in genere adolescenziale, delle figure femminili ritratte da Giulio Ciccarone, nella sua soffusa intimità domestica, ben evidente in posture del corpo e delle braccia, si esprimono preminentemente attraverso lo sguardo di lei. In esso una richiesta di dialogo, muto ma vivo, in cui il femmineo carattere della persona si pone  e si caratterizza singolarmente nella sua complessità seducente e attrattiva. Uno specchio – lo diremmo – di un animo nel quale la singolarità della persona ha e nutre idee e sentimenti, desideri e volontà. Moti e trasporti da tenere per sé o, volendo, da offrire ad un partner di vita, come, sia pur in vario modo, ad altri con cui ci si relaziona, per un attimo o per anni di vita sociale.

La seduzione fatta di fierezza, forte e persino cromaticamente ‘sfacciata’, dell’essere donna si propone attraverso i volti in terrecotte smaltate di Lucilla Serafino. Figure plastiche che sebbene non pienamente definite nei lineamenti anatomici, si giovano del potere di seduzione di colori forti e primari, assai  compatti e traslucidi con lievi e talora impercettibili sfumature, che notoriamente sono “le armi” con cui, in natura, l’essere femminile tende alla cattura vitale dell’altro da sé, del maschio in genere. Figure che, talora, nel comporsi ed esplicarsi in gruppi di facce multiple o per motivazioni smboliche trasformate, si pongono in certa misura come elementi d’arredo di forte impatto visivo ed emotivo, ma costituiscono per l’artista un tentativo di portare la figura modellata e riccamente smaltata verso una entità enigmatica che si fa, o che tale può divenire, più che oggetto, compagna al proprio vivere. Sia che la casa sia dimora di una donna, come di un uomo.

Giuseppe F. Pollutri

 

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