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il 22 febbraio 1956 la frana e il Muro delle Lame scivola a valle: il ricordo di don Michele Ronzitti

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Il 22 febbraio 1956 si abbatteva su Vasto una delle più gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso faceva scivolare a valle una buona parte del Muro delle Lame. Meno di un mese prima della disastrosa frana, Espedito Ferrara sulla prima pagina dell’Histonium scriveva: “La frana a Vasto è all’ordine del giorno, anche se sembra passare in seconda linea dopo i sondaggi effettuati dal Genio Civile. Trenta famiglie sono state costrette ad abbandonare le abitazioni; la splendida via delle Lame è chiusa al traffico. Un triste fenomeno, che dal 1816 si ripete di volta in volta”. Di seguito riportava tutti i movimenti franosi annotati dal canonico Florindo Muzii nel suo Diario, da quello disastroso del 1816, di cui abbiamo ampiamente parlato nei giorni scorsi, agli altri del 1831, 1843, 1844, 1845 e 1847. Altri movimenti si sono verificati agli inizi del secolo e anche nel 1941 e nel 1946 quando crollò, per l’ennesima volta, una parte del muraglione. Ed entrambe le volte, piuttosto che affrontare il problema alla radice si preferì riparare il muraglione. In particolare questo episodio lo ricorda anche don Michele Ronzitti, decano dei sacerdoti vastesi, che ha vissuto in prima persona quei tragici momenti. “Intorno al 1945, sotto la Madonna delle Grazie il terreno si abbassò notevolmente e c’era molta difficoltà a passare con le carrozze. In quel periodo stavano rinforzando i muraglioni e già si vedeva che usciva molta acqua. Era stato evidenziato il problema, ma pur di non fermare i lavori si è andato avanti. Don Romeo Rucci - ricorda ancora don Michele - diceva che in quel periodo se si fosse intervenuto in modo adeguato con dei canali di scolo, si sarebbe potuta evitare la tragedia del 1956, ma in tempo di guerra, soldi non c’erano e sappiamo tutti poi quello che è successo”. Nel settembre del 1955 già erano comparse le prime preoccupanti crepe sulla strada e nelle case di via Adriatica, non risparmiando anche una parte dei locali della chiesa di San Pietro. “Per problemi di sicurezza furono fatte sfollare molte famiglie - ricorda ancora don Michele - La chiesa era ancora aperta, ma a causa della comparsa di alcune crepe nella canonica, Don Romeo era andato ad abitare nei locali della Madonna delle Grazie, mentre io prima sono stato ospite di mio fratello a Corso Dante e poi ho trovato casa in Via Lago. Il 22 febbraio, giorno della tragedia, ero nella cappella di San Giovanni Battista, mentre sbrigavo le pratiche per un matrimonio, quando all’improvviso abbiamo sentito un rumore assordante, sembrava lo scoppio di una bomba, perché stavano cedendo parte della canonica e del salone parrocchiale”. Le persone sfollate furono accolte nell’asilo comunale tenuto dalle Figlie della Croce, nelle altre scuole e in alcune strutture pubbliche. “Dietro l’abside della chiesa c’erano rimasti ancora 3 o 4 metri di terreno - continua don Michele - ma con la successiva frana cedette tutto fino all’abside e si formò una nuova spaccatura che interessò la volta, il pavimento del presbiterio e la cripta di Sant'Espedito. Nel 1957 io, don Romeo, Giuseppe Spataro e i tre priori delle confraternite, ci siamo recati a Roma dal ministro dei Lavori Pubblici Romita, ma non ci fu nulla da fare, ormai era stato deciso l’abbattimento della chiesa: salvare la chiesa e ricostruire il muraglione sarebbe stato troppo costoso”. Già nell’agosto del 1956 sulle pagine dell’Amico del Popolo si leggeva: “Il Genio di Chieti è già in azione nella zona franosa della nostra città per porre in attuazione il grandioso quarto progetto di lavori, approvato recentemente dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Sembra che tutte le costruzioni esistenti, sino al livello di via San Pietro, vengano abbattute ed, in luogo delle dette, sorgerebbe un belvedere ispirato ai migliori criteri urbanistici moderni; a zona a valle, cioè la zona franata, sarebbe trasformata in una ampia scarpata verde… Se così sarà - proseguiva il giornalista - in considerazione del fatto che le case destinate alla distruzione, in genere sono, modestissime antiche ed antigieniche e che i legittimi proprietari riceverebbero un adeguato indennizzo, viene spontaneo ammettere che, alla fin fine, la frana non è stata un gran danno”. Giudizio questo infelicissimo che il giornalista, la cui sigla è GDF, si poteva tranquillamente risparmiare.
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