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'Genesis': in mostra alla Sala Mattioli opere di Paolo De Giosa e Davide Scutece

Pitturazione d’immagine, ad arte, per dire di sé e degli altri...

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Una coppia d’artisti, entrambi dimoranti a San Salvo, occasionalmente insieme in mostra, diversi nello stile ma assonanti in una pitturazione d’immagine poetica e narrativa, di chiara intenzionalità espressiva, di particolare impatto estetico e visivo.

Appuntamento con 'Genesis', protagonisti Paolo De Giosa e Davide Scutece, presso la Sala Marttioli di Vasto, fino al 6 settembre prossimo (orario di visita 19-24).

Un’arte contemporanea, erede della modernità impressionista ed espressionista (Van Gogh, Gauguin, da un lato, gli aderenti alla Die Brücke tedesca, dall’altra), dove la “performance” estetica sta tutta nell’opera esposta, fatta di segni descrittivi o di grumi di colori apparentemente astratti e in realtà funzionali ad un intento estetico e allo stesso tempo comunicativo. Due uomini del nostro tempo, operai-artisti (o viceversa), che nella pitturazione d’immagine, rappresentativa o astrattizzante, trovano modo di raccontarsi e soprattuto di narrare di come si pone l’io-individuo nel contesto sociale, del come si vive, spesso a disagio e con irosa seppur mediata protesta, il proprio vivere sociale per più ragioni straniante, e talora lacerante.

Paolo De Giosa – Per i vastesi e forestieri le sue opere sono una novità e progressivamente una chiara affermazione. La scoperta di un altro artista locale ma non provinciale, e altrettanto e ancora della vigenza eidetica dell’arte d’immagine, utile a indagare e significare, attraverso il ritratto, attraverso i grandi e esplodenti occhi dei personaggi da cui trae motivo (musicale, letterario e cinematografico) l’opera: realtà individuali, quotidiane e famigliari, personaggi di successo ‘ritratti’ nella loro manifestazione  attoriale e umana non meno. Lo stile di De Gioia è generalmente descrittivo. Usa il segno, preciso, affastellante e proliferante, talora ‘schizzante’ e destruente tra vivaci pennellate e grumi densi di colore, strumento per delineare iconicamente (alla comics d’arte) o per dare forma identitaria ad un viso (al personaggio noto e cult, ai suoi occhi), per caratterizzare “il divo” e, al tempo stesso, per catturare l’attenzione del ‘visitatore’ in una sorta di simpatetica e coinvolgente interazione visiva e noumenica. Non a caso, individuando una chiara cronologia nella sua produzione d’immagine, si va dall’autoritratto e alla pastellazione del viso della compagna di vita, alla ‘illustrazione’ celebratica e pur scrutante dell’attore cinematografico, all’espressione di grande impatto, di elaborazione più recente, di un essere umano identificato e descritto in un suo momento di forte emotività vitale, quasi un …fuori quadro. Un autore da seguire negli anni a venire nei suoi successivi esiti stilistici e contenutistici. La capacità, precisa ed efficace, d’immaginare e di ‘illustrare’ è – a mio avviso – già evidente e produttiva. Promettente non meno.

Davide Scutece – I più attenti frequentatori dell’arte locale conoscono Scutece e la sua pitturazione cromatico-materica, apparentemente e impropriamente definibile come naïf,  in realtà ricca d’istinto autoriale e non meno di studio pittorico espressivo, maturato sia alla scuola di bottega dello scomparso Ennio Minerva, che da autodidatta, sia in termini stilistici che culturali, “alla scuola della vita”. Scutece alla sua maniera, per una pittura forse non del tutto gradevole, quanto a visività e decor-style, avaro per lo più (ma non sempre) di stesure cromatiche, dipinge per narrare (forse per una personale catarsi lirico-emozionale) quel che lo attrae o lo indigna, quel attorno a lui e su di lui, mediaticamente, e direttamente nella sua esperienza operaista, avviene e si dispiega; per lasciare traccia o testimonianza di quel che lo coinvolge, lo incuriosisce, e talora intimamente lo dilania. Funzionale a tale suo auto-dato compito, l’immagine è nei suoi ri-quadri, di materiale vario e talora povero ed occasionale, abbondantemente biaccata, come dilavata, sciupata e consunta, su cui s’innesta talora, ed anzi spesso, un foglio o brandelli di giornale (“perché sia chiaro che lì... sta scritto!”, mi dice in un colloquio l’autore). Scutece ci dice di sé, quale indefinito ma ineliminabile vagabondo urbano, ci racconta di una nave, enorme nella sua mole, smontata “a mano”, pezzo per pezzo, da una folla di lavoratori indiani, si pone come testimone di un’auto data alle fiamme di notte, in una descrizione come larvata nel sogno e ravvivata appena dal colore rosso arancio delle fiammelle, ci indica un pensoso barbone scaldato dall’abbraccio del suo piccolo cane-compagno, ci mostra una corriera d’altri tempi che nei paesi latino-americani viaggia ricolma di uomini e merci sino all’inverosimile, ci minaccia (nella coscienza), mostrandoci un uomo braccio teso e pistola, perchè di sopprusi “non se ne può più” e perchè …non abbia – mi dice, breve e serio – più a succedere. Insomma: poesia d’immagine come denuncia, la denuncia che nell’immagine trova la sua espressione e testimonianza di un “mal di vivere” sociale. Arte non ‘decorativa’ ma allusiva e comunicativa, insomma per dire, di sé e degli altri.

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