In scena a Cupello “Il nome potete metterlo voi” con l’attrice e regista Giuliana Antenucci

Un’analisi più approfondita dello spettacolo teatrale scritto e diretto dal regista Mauro Monni, per il progetto “Una Nazione, uno spettacolo: 50 città, un unico spettacolo”

Marianna Forgione
27/11/2021
Cultura
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Promotrice, insieme ad altre quarantanove città, del progetto promosso dal drammaturgo Mauro Monni e dall’associazione culturale Sine Qua Non, Cupello ha avuto l’onore di ospitare l’evento “condiviso” in tutta Italia dal titolo “Il nome potete metterlo voi”.

Nella giornata tutta dedicata alla violenza sulle donne, l’Amministrazione comunale e i numerosi spettatori che si sono alternati durante i due turni dello spettacolo (quello delle 18:30 e quello delle 21:30), spettatori tra cui era anche presente il Presidente del teatro Marrucino di Chieti, dott. Giustino Angelone, hanno accolto con grande entusiasmo e certezza questo evento che si è rivelato di una forza e intensità immense.

E allo stesso modo immensa è stata Giuliana Antenucci, regista e attrice cupellese, che nei due spettacoli, in scena giovedì 25 novembre presso diversi ambienti del Palazzo comunale – è riuscita a interpretare e “raccontare” tanto con delicatezza quanto con passione e forza devastante, la storia della donna “senza nome”  protagonista. Ed è il fatto di non avere un nome a dare grandezza e valore al titolo ma soprattutto  al testo stesso dello spettacolo: la frase che apre e chiude le scene è “Il mio nome? È davvero importante saperlo?”, proprio per veicolare e rimarcare il concetto che la sorte toccata alla protagonista potrebbe capitare a qualsiasi donna.

A partire da tale frase, dopo aver assistito a una vera e propria vestizione del personaggio – una bibliotecaria dalla vita apparentemente piatta – gli spettatori vengono guidati man mano nelle varie fasi della vita della donna; e con grande scioltezza e sapienza teatrale la Antenucci è riuscita a far percepire i diversi stati d’animo: dalla malinconia e nostalgia dei ricordi d’infanzia, alla leggerezza e frivolezza della fase dell’innamoramento fino ad arrivare alla consapevolezza, ormai tardiva, di aver permesso un legame sbagliato che vedrà come unica via d’uscita un tragico epilogo.

Le diverse sfaccettature sono state ben veicolate altresì dagli spazi del palazzo comunale scelti come location dei tre momenti: la biblioteca, la sala consiliare e la sala multimediale sita lì dove c’erano gli ex granai del palazzo.

Nella biblioteca, luogo deputato per eccellenza per far arrivare a chi guarda l’amore della bibliotecaria per i libri, suoi “fedeli compagni di vita”, come lei stessa afferma, presenti in ogni momento della sua esistenza, vengono letti passi da Anna Karenina di Tolstoj – e questo già sembra presagire il fatto che quella verso cui si andrà incontro è una storia di passione e tormento – e vengono citati altri capolavori della letteratura oltre che storie e nomi di scrittrici e donne rappresentanti il mondo femminile, diventato “una fissazione” per la protagonista, che sperava in questo modo di poter ridare loro quel valore che nel passato non era stato mai riconosciuto.

Dando qualche accenno a quello che, ancora per poco, sarà il suo compagno di vita con cui aveva, fino ad allora, condiviso quasi nulla se non una grande solitudine, con la frase “E così accadde che…” si chiude la scena in biblioteca dove fa il suo ingresso una ballerina di rosso vestita che, al buio, guida gli spettatori nella seconda location, la sala consiliare.

Luci rosse, immagini di donne intente a farsi belle, la leggiadria dei movimenti della ballerina Carla Colamarino che danza sulle note di Einaudi e un bigliettino su cui è riportata la poesia Il più bello dei mari di Nazim Hikmet, accompagnano il pubblico nella fase dell’amore e dell’innamoramento della protagonista. È qui che viene raccontato l’incontro con l’uomo, sua presunta anima gemella, e il gioco di seduzione che questi porterà avanti fino a condurre la povera malcapitata negli inferi.

E così, muniti di piccole torce e guidati ancora dalla danzatrice che stavolta appare come “svestita” degli abiti che prima simboleggiavano l’amore, non a caso il rosso del suo vestito è coperto da un giaccone nero e pesante, pesante come la situazione a cui si sta per assistere, gli spettatori, nel buio più totale, vengono diretti nel piano interrato del palazzo comunale, location perfetta, scelta appositamente per rendere – come l’attrice stessa ci aveva detto durante una precedente intervista – “l’idea della discesa agli inferi della protagonista della storia”.

Nella prima sala che si incontra dopo aver percorso i larghi gradini in discesa, gli spettatori vengono accolti da voci e grida di disperazione – registrate nei giorni precedenti dallo staff di Photorama di Nicola Sammartino – che presto lasciano il posto a un forte litigio, sempre registrato, tra la bibliotecaria e il suo compagno: i toni intensi, rabbiosi e marcati di Fabio Di Cocco riescono alla perfezione a far emergere, in un crescendo sempre più forte e agghiacciante, la sua natura di narcisista patologico che dalle parole dolci della fase dell’amore ora riserva solo offese e insulti a una donna che ormai è totalmente in balia sua e indifesa contro tutta la violenza verbale e psicologica di cui è diventata destinataria.

La forza delle parole e lo scambio di battute si rivelano così coinvolgenti che la sensazione è proprio quella di vivere e assistere a un litigio che di lì a poco scoppierà e si trasformerà in un vero e proprio “combattimento a corpo libero” in cui è il corpo della donna, oltre che l’anima, a distruggersi e lacerarsi.

Il battito di un cuore che man mano accelera fino a bloccarsi e il rumore di una portiera che sbatte diventano immediatamente premonitori dell’epilogo a cui gli spettatori si troveranno davanti: è l’attrice Maria Cristina Stumpo a guidare adesso il pubblico verso la parte più interna della sala multimediale che si trasforma, grazie alle magnifiche doti scenografiche di Annalisa Sciullo, dell’Accademia delle Belle Arti de L’Aquila, in una vera e propria scena del delitto. Un giaciglio di foglie secche e rifiuti accolgono il corpo esanime e tumefatto della donna ormai consumata, come i brandelli di abiti che indossa, dalla violenza perpetrata per mano di colui che si definiva “sua anima gemella”.

La voce della Stumpo, con rimandi a dati ed evidenze relativi al numero delle vittime di femminicidio in Italia, riporta i presenti alla realtà ed è qui che ci si rende conto che quello a cui abbiamo assistito è in verità ciò che accade realmente a molte, troppe donne.

Un esempio di “teatro civile”, come lo ha definito la Antenucci, quello andato in scena a Cupello il 25 novembre – e che speriamo venga riproposto - fondamentale per sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica su temi forti ma attualissimi come quello della violenza.

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