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Da Punta Penna a Punta d'Erce tra archeologia e natura

Lo spirito del luogo

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Fino ad oggi il patrimonio archeologico – per il suo intrinseco contenuto vincolistico – è stato utilizzato dalle associazioni ecologiste per bloccare edificazioni di varia natura. Ma non mi risulta che sia stata concepita un’operazione inversa: vale a dire, la natura funzionale alla difesa del bene archeologico. Da questo punto vista, la vicenda della piana della Penna del Vasto è esemplare. In effetti, salvo l’associazione Porta Nuova (che per sua definizione statutaria non è ecologista, ma civica), nessun’altra ha posto la questione della conservazione dell’insediamento antico colà esistente. Anzi senza l’intervento di un socio di Porta Nuova, Davide Aquilano, e dell’allora ispettore arch. Alessandro Usai, la piana della Penna non sarebbe oggi un’“area archeologica”, ma un complesso residenziale, così come previsto in un progetto del 1992. Che cosa sia un’area archeologica risulta dal § b) dell’art. 99 del T.U.490/1999, recepito nel dlgs. 43/2004: «b) sito su cui insistono i resti di un insieme edilizio originariamente concluso per funzione e destinazione d’uso complessiva». Essa è differenziata dal Parco archeologico che così viene profilato dal § c): «c) ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura attraverso itinerari ragionati e sussidi didattici» (a norma di legge, l’unico nel territorio è il Parco del Quadrilatero di S. Salvo). La proprietà dei suoli è decisiva nella loro classificazione giuridica. L’area archeologica, ovviamente, insiste su terreni privati. Dal 1998 (anno di istituzione della riserva di Punta d’Erce), nessun intervento è stato fatto per acquisire questo sito al pubblico. Già. Il vincolo è utile per altri motivi. Perché allora insistere? Ma c’è di più. Il patrimonio archeologico interno all’area di riserva riveste qualche interesse aggiuntivo solo perché dà maggiori vincoli all’ambiente in questione. Chissà che cosa accadrebbe se si dovesse procedere a uno scavo archeologico. Non ci meraviglieremmo se dovessero essere addotte motivazioni ambientali per vietarlo! Singolare destino quello della grande area di Punta Penna. Mi piacerebbe sapere se i gelosi custodi di queste zone sono a conoscenza del fatto che la ricognizione RAF dell’agosto 1943 registra, a quella data, solo un sottile lembo dell’attuale spiaggia sabbiosa, cresciuta solo per regressione marina. Forse darebbe fastidio sapere che ciò è dovuto all’antropizzazione cagionata dalla costruzione del porto. Dell’ambiente naturale originario non si conserva nulla. I laghetti di Vignola visitati da Francesco Paolo Michetti nel 1909 sono stati bonificati dopo il 1924, sotto il podestariato di Pietro Suriani. L’area vicino alla foce del Torrente Lebba è il risultato del lavoro di cava per la manutenzione della strada ferrata fino agli anni Venti del Novecento (ferrovia, a sua volta, che quando viene inaugurata nel 1863 produce sulla costa un impatto ambientale di rara violenza). L’inaugurazione del Porto nel 1948 reca in sé la ferita mortale del monumentale Scoglio spaccato (con una sorgente interna d’acqua dolce) lasciato esplodere per la costruzione del molo sud. Diciamola tutta. L’attuale estesissima area di Punta Penna non risulta essere affatto natura naturans, ma natura naturata. E’ solo l’effetto di una fortissima antropizzazione novecentesca, che non conserva alcun carattere originario. Ecco allora il punto centrale di discussione. Noi parliamo di un’area definita nel corso del Novecento. Ciò che si vuole tutelare è una zona novecentesca. E sta bene. Ma con una consapevolezza: che, per l’appunto, tuteliamo un paesaggio recente (espressione, tra l’altro, dello stesso secolo che ha visto la costruzione delle incredibili case popolari nella piana della Penna). Vale la pena sottolinearlo. La natura è storia, mutamento; non un’immobilità senza tempo che, sempre uguale a se stessa, giunge da remotissime lontananze. Non è il caso di obliare un dato. Un sito della Riserva Punta Aderci (http://www.vastospa.it/html/) annota di aver appreso dal blog di Francescopaolo D’Adamo che l’area storicamente è denominata Punta d’Erce, non come oggi. Ci fa piacere che, ignorando le centinaia di pagine sull’argomento, gli amici di Punta Aderci (sic) abbiano appreso da un blogger (intanto, grazie a Paolo per aver fornito loro la segnalazione), che il luogo si chiama Erce. Ma se si fossero rivolti non a un ambientalista che sa tutto ma a un modestissimo archivista dalle corte vedute avrebbero forse appreso che di ciò parlano gli Statuti municipali cinquecenteschi di Vasto, la versione corretta (1805) dell’Atlante Rizzi Zannoni del Regno di Napoli (1765), il Catasto Napoleonico (1813), la Storia di Vasto di Marchesani (1838-1841) – solo per limitarci alla documentazione immediatamente compulsabile –. E sopratutto che la mappa che ripubblicano (quella redatta nel 1858 dall’ing. Luigi Dau), altro non è che il rimodellamento della versione 1805 dell’Atlante Rizzi Zannoni. Ora, stando così le cose, perché non si rivolgono al Comitato di Gestione per avviare la rinominazione? C’è forse qualche prescrizione che ne fa divieto? O forse il cambiamento di nome produce l’immissione di fiato nell’ambiente? Oppure la polvere dei documenti inquina l’habitat in questione? A questo punto un’ulteriore considerazione – forse scontata – ma utile da fare. L’archeologia studia insediamenti antichi; città, edifici pubblici e privati. In generale, manufatti scomparsi. Li studia stratigraficamente, secondo successioni temporali per cogliere le diverse fasi storiche di occupazione dei suoli. Davide Aquilano ha dovuto pubblicare (1997) in una rivista francese («Melanges de l’école Française de Rome» http://www.persee.fr/web/revues/home/mefr1123 -1997num_109_1) gli esiti degli scavi condotti in situ (Punta Penna) nel 1993. Ha dimostrato con dati inoppugnabili ciò che era stato prospettato dal punto di vista storico: la costruzione ex-novo di una città voluta da Federico II (Penna de Luco) che si innestava sui resti di un precedente santuario italico. Fatta tale precisazione, la domanda provocatoria che emerge è la seguente: perché gli antichi potevano costruire città dalle fondamenta e a noi contemporanei invece è vietato? Perché nell’attuale sito della riserva di Punta d’Erce è stato possibile, nel neolitico, insediare villaggi e porti oppure luoghi di sepoltura conseguenti all’epidemia di tifo petecchiale del 1817? Come si vede, la domanda è paradossale. Ma in essa è contenuta una risposta che non lo è affatto: gli antichi costruivano ovunque e per ragioni strategiche. Solo che sapevano ciò che costruivano, e soprattutto, in che modo costruivano. La ragione è tutta qui. Non si opponevano alla natura, ma la assecondavano. Davano il senso più compiuto di integrazione con l’ambiente (mi chiedo: riuscirebbe a trovare oggi autorizzazione edificatoria la Torre Cavallara cinquecentesca che interrompe la skyline della punta? Oppure come dice il mio amico Alfredo Forenza: avrebbero autorizzato la nascita su laguna di Venezia?). Certo, non avrebbero mai costruito sui resti di un acquedotto romano (com’è recentemente capitato a Vasto), con il tracciato noto da sempre, ignorato da molti, e difeso solo da associazioni non ambientaliste come Porta Nuova. Non avrebbero mai costruito case popolari come sul promontorio della Penna. Non avrebbero sempre detto no, ma sì dove è possibile e no dove è impossibile. Gli antichi, con gli esempi, ci hanno dimostrato tutto questo. Per tale ragione sono volutamente dimenticati. Ma l’archeologia ci sbatte continuamente di fronte tale realtà. Ce la fa toccare con mano. Si capisce il motivo per cui è vista solo come vincolo e non come strumento di comprensione del genius loci. Nessuno al presente sa che cosa fare a Punta Penna. Nel Medioevo, sì. Federico II Hohenstaufen, lo Stupor mundi, ha realizzato una città e un porto. La domanda di oggi è proprio questa: noi, che cosa vogliamo fare da grandi?
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