Siamo in pieno Settecento, la Chiesa del Carmine, chiamata così per brevità da noi Vastesi, è stata progettata dall’ing. Gioffredo, napoletano, ed elegantemente decorata con pregevoli stucchi dai partenopei Carbone e Saccioni dal 1762 al 1765. Vorrei citare ancora una data, 1760-61, incisa nell’architrave della Chiesa dal lapideo molisano Calvitto che realizzò il portale in pietra. Osservando attentamente la Chiesa, notiamo la pianta a Croce Greca che ci porta a Luigi Vanvitelli a cui molti attribuiscono i disegni.
La sua formazione architettonica a Roma ebbe come ispiratori Bernini, Borromini, Fontana e, diciamo pure, tutta piazza Navona e non solo. Questo influsso porta spesso ad una definizione dell’artista “Tardobarocco”. Se pensiamo ai pittori Olandesi, ai Vedutisti, al padre pittore ed a lui stesso pittore, comprendiamo con quale bagaglio cresce nella Napoli del Settecento. L’amore per tutta l’arte classica fanno aggiungere al termine “Tardobarocco”, quello, oltremodo vero, di “Neoclassico”. All’epoca tutta l’Europa aveva come fulcro della cultura e delle arti la Francia, influenzata dagli stili del Re Sole, Luigi XIV e dell’elegante Luigi XVI. Ho voluto darvi questi riferimenti per poi entrare nei dettagli, invitandovi a porre l’attenzione sugli eleganti stucchi della nostra Chiesa del Carmine simili a quelli della Reggia di Caserta.
Queste scelte furono spesso oggetto di forti liti tra il re e l’artista che non amava decorazioni in pietre e marmi ma elementi decorativi più leggeri e luminosi. Vorrei inoltre segnalare alcuni elementi d’arredo della nostra Chiesa, in particolare i due confessionili, il pulpito e la sacrestia, custoditi sapientemente da Don Michele Ronzitti. A Caserta troveremo mobili simili e lasciatemi pur dire che nemmeno a Versailles vi sono esemplari che possono competere. Vi ricordo che dalla Francia venivano chiamati gli ebanisti napoletani che portavano con loro attrezzi (sgorbie, scalpelli ecc.) ed anche essenze di legni nobili e chiari (cedro, acero, nespolo ecc.) tipici mediterranei.
Ebbene, le tarsie, le incisioni sui mobili della nostra sacrestia sono impareggiabili esempi. Una parola anche sul portale in pietra della Chiesa del Carmine che risente del pregevole influsso della scuola degli scalpellini molisani, seicentesca, molto ambita all’epoca, specie dalla Chiesa di Roma. A Sulmona è possibile ammirare i loro lavori nella Chiesa dell’Annunziata. Vorrei, comunque, far notare che il nostro portale in pietra conserva tutta la sua patina, tutti i chiaroscuri che completano ed arricchiscono la luminosità dei mattoni a faccia vista. Spesso il vile compressore moderno ha offeso, complice “l’uomo sapiente”, facciate e quant’altro.
Il portale di S. Pietro è stato privato dei suoi chiaroscuri, come pure la facciata sud di San Giuseppe, dove si nota ancora la sofferenza di quei splendidi mattoni, ed è proprio di questi giorni “il nuovo abito” del “Rossetti” restaurato nell’omonima piazza. Ma torniamo al Vanvitelli ed all’Architettura. Nel 1600 lo scrittore Charles Bouleau scriveva: “Il fine dell’Arte è di stupire e commuovere”. Gli architetti del tempo lo avevano capito, “Stupire voleva dire attrarre l’attenzione
e trasmettere significati, anzitutto devozionali”. Storicamente furono le basiliche con l’architettura di maggior arditezza formale e strutturale in grado, non solo di stupire, ma di trasformare lo spazio circostante. Vanvitelli imparò bene questa lezione dai maestri romani. “Santa Sofia” con la sua cupola e la pianta a croce greca del 1200, di influsso squisitamente orientale, fu uno dei primi esempi.
Nella chiesa del Carmine le modalità costruttive, le arditezze espresse dalle lunghe lesene che ci proiettano verso il campanile testimoniano un rapporto osmotico con la nostra città. La reggia di Caserta nasce con questa idea sposata dal Vanvitelli. Grazie alla sua formazione ed esperienze culturali, la costruzione in rapporto al suo contesto deriva da una ricerca di corrispondenza tra architettura e paesaggio. Versailles, scrive un giornalista del Corriere della Sera di domenica scorsa, nasce da un rifiuto del re Luigi XIV a confrontarsi con la città storica, sporca e pericolosa. Io aggiungo che Carlo III poté realizzare con lo stesso intento la Reggia grazie al Vanvitelli. Se l’ottantenne architetto-scultore canadese, Frank O. Gehry, considerato la più grande “Archistar” dei nostri giorni e per alcuni di sempre, colui che costruì la sua dimora con elementi di recupero plastici, metallici” da cassonetti”, ha segnato il passaggio tra il XX e il XXI secolo, certamente Vanvitelli è una vera cerniera tra il Seicento Barocco e il Settecento Neoclassico partenopeo.
Se poi vogliamo anche ricordare la laicità del Vanvitelli basta soffermarsi sull’androne di Caserta e lasciarsi sollevare dall’armoniosa scalinata, vera pietra miliare dell’architettura. Dalla sua scuola derivano, certamente, i disegni delle gradinate di alcuni nobili palazzi della nostra città, in particolare dell’ex Histon Club e del palazzo Magnarape in Corso Dante e poi ancora della vecchia locanda del Cavallino Rosso in via San Francesco d’Assisi. Va anche ricordata la piccola e graziosissima Chiesa di Sant’Anna, con la sua elegante gradinata, teatro dei miei giochi infantili. E perché non ricordare la Chiesa dell’Addolorata con le lunghe lesene in mattoncini, le spallette sinuose ed il portone d’ingresso, autentico Luigi XIV, gelosamente custodito da Roberto Cinquina. E per essere irretiti da splendide bellezze, andando sotto la cupola del Carmine, certamente questa ci sembrerà, per dirla con Leon Battista Alberti, “un Cielo sulla nostra Città”.
Vorrei spendere ancora una parola sulle cupole che adornano il territorio tra Caserta e Benevento chiaramente espressione dei disegni della scuola vanvitelliana. Percorrendo i paesi disseminati un po’ ovunque in questo territorio, alzando lo sguardo ai campanili fino alle cupole, simili a quelle delle Chiese del Carmine e di San Giuseppe, possiamo notare le affinità con le nostre, certamente meno ricche di quelle, rivestite dalle maioliche di Capodimonte e dai Riggiorari Cerretani. E vorrei concludere con un cenno al quotidiano. Nel nostro Centro Storico spesso il restauro sacrifica elementi preziosi, quelle Cose a cui, per dirla con lo scrittore Remo Bodei, i nostri padri hanno dato vita affidando messaggi da trasmettere alle nuove generazioni. Ed un ultimo pensiero va alle eleganti porte, spesso di nobili legni (noce, ciliegio ed altri frutti) o laccate e/o dipinte, distrutte nel nostro Paese o sparite nel nulla come quelle che anche la nostra Sede vantava di possedere.