Immigrazione: buonismo o pietismo? Paura o voglia di saperne di più?

Diamo un piccolo sguardo a ciò che accade nella nostra comunità

Lea Di Scipio
30/08/2016
Attualità
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Spesso la parola immigrazione viene accompagnata a quella di emergenza e oggi questa associazione acquista una valenza ancora più palpabile agli occhi e alle orecchie della nostra comunità, ogni giorno sottoposta alle immagini e ai video che testimoniano la sofferenza di chi è costretto a emigrare.

Ma viene da chiedersi se buonismo o pietismo siano le naturali reazioni che possano scaturirvi.

Sappiamo, leggendo le miriadi di commenti, di suggestioni, di esperienze che vengono raccolte dai giornali, nei social e per strada che non è così.

Feltri si domanda proprio questo nell’articolo che qualche giorno fa imperava in prima pagina sul suo giornale “Libero”: “l’Italia è un paese che ha nel suo DNA il buonismo, siamo certi che la politica di accoglienza ci ponga ai ripari dalle metastasi dell’ISIS, quando sappiamo che molti vi si rivelano legati?” fino ad affermare che “il buonismo fa rima con autolesionismo”.

Ci si chiede se più che di tolleranza si sarebbe dovuto parlare di un’etica o di una politica del riconoscimento del pluralismo religioso, nell’ottica della valorizzazione delle differenze culturali e sociali. Vale a dire che, venendo probabilmente a mancare questo “approccio preparatorio”, in Italia non siamo abituati culturalmente alla presenza di questo “altro”.

Ma sappiamo veramente CHI sono questi immigrati che stanno occupando i “nostri” alberghi e che riempiono le “nostre” città? Ci chiediamo quale sia il reale impatto sulle nostre vite della loro presenza, o ci preoccupiamo senza conoscere di persona il fenomeno?

Abbiamo chiesto ad Hamid Hafdi, Mediatore culturale e portavoce della comunità musulmana di Vasto e dintorni, di condividere con noi qualche suggestione in merito - “sicuramente all’inizio a soffrire dell’emergenza sono state anche le famiglie di immigrati integrati già da anni nella nostra comunità, sotto un duplice aspetto. Infatti, si è avvertito da una parte un senso inziale di paura di perdere la tranquillità raggiunta a fatica, dall’altra quasi ci si è sentiti discriminati nel tipo di percorso intrapreso, visti gli aiuti economici e di alloggio che questi nuovi arrivati hanno ricevuto”. Quest’ultima considerazione sembra perfettamente in linea, ma per differenti ragioni, con la paura o, se vogliamo, con la rabbia di quanti tra gli italiani sono convinti che siano una minaccia alle nostre risorse economiche e per il mercato del lavoro - “in realtà questi ragazzi richiedenti asilo (nei nostri centri l’età va dai 18 ai 40 anni circa) vengono mantenuti di diritto con i soldi della comunità europea e non tolgono niente a nessuno. Anzi, svolgono lavori socialmente utili, si danno da fare mettendosi a disposizione. Lavorano nell’agricoltura. Molti di loro hanno ormai imparato l’italiano grazie anche al fatto che sono scolarizzati, alcuni posseggono persino la laurea”.

Un altro motivo di preoccupazione da parte degli immigrati integrati sembrerebbe essere anche la lentezza della burocrazia – “la Questura di Chieti, oberata dal lavoro sui richiedenti asilo, ha allungato in molti casi le procedure di rinnovo dei Permessi di soggiorno, creando un largo malcontento che non ci facilità nel lavoro di integrazione”.

E Hamid continua dicendoci che se proprio dovessimo affidarci a quello che è diventato ormai un luogo comune, l’unico che avrebbe davvero senso è che – “nessuno scapperebbe da una situazione agiata mettendo a rischio la propria vita. Nessuno affronterebbe il mare con la consapevolezza di poter morire, senza la speranza di trovare non solo un futuro migliore, ma anche semplicemente di sopravvivere”.

E ancora ci racconta che la sofferenza di questi ragazzi che vivono confinati negli alberghi, con la consapevolezza di non essere accettati da tutti, insieme al vuoto della separazione forzata dalla propria famiglia hanno generato atti di grande solidarietà – “quando si viene a sapere che uno di loro ha perso un familiare nel proprio paese, fanno una colletta raccogliendo più bonus giornalieri (detti pocket money), in modo da aiutare il compagno a mandare una cifra più cospicua alla propria famiglia”.

Raccogliamo e giriamo, infine, la sfida di Hamid – “sospendiamo per un momento il giudizio e facciamo ognuno lo sforzo di provare a conoscere queste storie, non facciamoci solo guidare dalla paura o dalla mediazione dei media, non sempre attinente ai fatti o spesso parziale. Non lasciamoci andare per forza a sentimenti di buonismo o pietismo, ma almeno cerchiamo di capire cosa sta succedendo nel mondo”.

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