Lavinia Feltria della Rovere e Felice Alfonso d'Avalos, un matrimonio stroncato

Del prof. Nicola De Sanctis, Università di Urbino

Nicola De Sanctis
26/08/2014
Storia
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Nella Cattedrale di Pesaro il vescovo della città, Monsignore Roberto Sassatello, il 5 giugno 1583 celebrò le nozze fra il diciannovenne Felice Alfonso d'Avalos e la ventiseienne Lavinia Feltria della Rovere, matrimonio fra le nobili casate di Vasto, allora soprannominata "l'Atene degli Abruzzi", e di Urbino,  culla del Rinascimento.

Grande fu la festa alla presenza del duca di Urbino "con tutta la corte, l'arcivescovo di Urbino, gli ambasciatori delle comunità dello stato, gli inviati della repubblica di San Marino, di Ancona, di Fano, di Rimini". Mancò solo l'amico più caro di Lavinia: il poeta Torquato Tasso in quei giorni trattenuto nell'ospedale sant'Anna di Ferrara. La luna di miele per ben cinque mesi si consumò nel Ducato del fratello della sposa, Francesco Maria II della Rovere, sesto ed ultimo duca di Urbino, che, oltre ad avere dovuto sopportare tutte le spese per il matrimonio, si trovò a dover mantenere anche l'intero seguito del Marchese del Vasto fatto di ben "quaranta bocche e venti cavalli".

Il matrimonio era stato combinato secondo il costume del tempo: interesse, convenienza, calcolo spregiudicato per il futuro, equilibrio fra le  dinastie. Per il d'Avalos, a corto di finanze, la dote della sposa, assemblata dal concorso di donativi di molte comunità del Ducato, avrebbe dovuto alleviare il carico dei suoi debiti. Di fatto le cose andarono  diversamente perché la dote fu accordata a rate: a fronte di 75.000 scudi, soltanto trentamila da pagarsi subito. Eppure il Marchese  aveva inviato alla sposa un presente pari a 10.000 scudi, come si legge nel Diario del fratello: "A' 26 di maggio il signor Fabio Gonzaga presentò a donna Lavinia, per parte del Marchese del Vasto suo marito, una collana gioiellata, una testa et zampe di zibellino con gioie, un manico di ventaglio, un gioiello fatto come un sole, due perle da orecchie, una croce di diamanti, un'aquila di diamanti in gioiello et una lettera di cambio di 2 milia scudi: che il tutto fu stimato di valore di scudi 10 milia".

Finalmente, il 5 dicembre, i coniugi d'Avalos decisero di partire per raggiungere non Vasto ma Casalmaggiore, un feudo in provincia di Cremona che Filippo II nel 1568 aveva concesso a Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara e che alla morte di donna Isabella Gonzaga, sua moglie, il 15 agosto 1579 passò al figlio  Alfonso Felice.

L'accoglienza a Casalmaggiore fu trionfale, come scrive il Romani: "Il Marchese del Vasto nel 1583 venne con sua moglie Donna Lavinia Feltria sorella del Duca d'Urbino  ad abitare in Casalmaggiore, il quale come padrone dilettissimo fu dalla Comunità in più maniere manifestamente ricevuto ed alloggiato nel palazzo riccamente addobbato concessogli dalla Comunità per la persona sua e della moglie...".

Nella nuova residenza il Marchese continuò il suo stile di vita tra feste e sollazzi fino a settembre dell'anno dopo, quando, chiamato da Filippo II, dovette accorrere nelle Fiandre lasciando che la moglie, in avanzato stato di difficile gravidanza, tornasse a Pesaro dove il 26 aprile 1585 nacque la prima figlia, destinata ad avere un ruolo determinante nella discendenza dei d'Avalos. Fu battezzata solennemente un mese dopo, come annota lo zio nel suo Diario : "A' 5 di maggio si battezzò nel vescovato di Pesaro la figliuola della Marchesa et del Marchese del Vasto, et fugli posto nome Isabella, et monsignor il Vescovo di Cagli la battezzò, et la tennero al battesimo, al quale fu portata dal conte Fabio Landriano, il signor Pietro Armentaro in nome di Madama d'Austria et il signor Scipione Giglioli per il Duca di Ferrara".

Sette mesi dopo, il 5 dicembre, in una tregua dalla campagna delle Fiandre, arrivò a Pesaro il Marchese per conoscere la neonata. In questo soggiorno ebbe modo, il 16 febbraio, di correre a Pesaro la quintana ma anche di mettere in cantiere una seconda gravidanza.

Ripartito il marito per la guerra di Fiandra il 23 aprile 1586, Lavinia passò buona parte del suo tempo nel castello di Novilara, a ridosso di Pesaro. La secondogenita nacque ad Urbino il 16 agosto e fu battezzata il giorno dopo "ne l'arcivescovato, positivamente et senza cerimonie, fuor che le necessarie, et gli fu posto nome Caterina, essendo compare frate Agostino da Romano, lettore in San Domenico, et il proposto la battezzò".

Alla fine di novembre, il 27, Lavinia e le due figlie tornarono a Casalmaggiore dove, da lì a poco, arrivò il Marchese esultante per le vittorie riportate e fiero per essere stato fregiato da Alessandro Farnese, in nome di Filippo II, della Collana del Toson d'Oro, massima onorificenza dei monarchi di Spagna.

La felicità fu grande e s'accrebbe con l'arrivo dell'atteso figlio maschio che vide la luce il 9 settembre 1587. "Sontuose feste si fecero a Casalmaggiore, e vi si recò con grande corteggio il duca di Terranova, Governatore di Milano, per tenere, a nome del re di Spagna, al sacro fonte il bambino, cui, in memoria dell'avo, fu posto il nome di Francesco Ferrante", assente il Marchese impegnato ancora nelle Fiandre.

In un brevissimo soggiorno a Napoli, Lavinia, alloggiata nel palazzo dei Marchesi d'Avalos, ebbe la visita graditissima del Tasso e, ritornata a casa, poté riabbracciare il marito arrivato, questa volta, stanco e malaticcio. Dopo pochi giorni, il 19 giugno 1589, nacque la quarta erede: Maria.

Ma la vita spensierata e gioiosa della piccola corte di Casalmaggiore a partire dal 1590 subì un contraccolpo di disgrazie che misero a dura prova la sensibilità di Lavinia. A parte la morte della bellissima Maria d'Avalos uccisa a Napoli dal marito, principe di Venosa, sorpresa in adulterio con Fabrizio Carafa, duca d'Austria; a parte la morte di un altro Avalos a  Palermo, caduto in mare col cavallo; la disgrazia più dolorosa fu la morte, il 20 agosto, del marchesino Francesco Ferrante colpito senza scampo dalla febbre quartana.

Tuttavia, malgrado tutte queste disgrazie, il Marchese continuò il proprio ritmo di vita come sempre, senza badare a spese e senza alcuna responsabilità. A corte "piena di nobilissimi cavalieri napoletani e d'altri gran signori... venivano ad ogni tratto recitate commedie, battute moresche, fatti balletti... tantocché ogni dì vi concorrevano forestieri, come ad un teatro di piaceri...". Per giunta, il Marchese trovò anche il modo di inimicarsi i nobili locali vietando loro  di cacciare nelle sue terre ed allontanando dal Consiglio quelli renitenti, sostituiti con un gruppo di plebei rozzi ed ignoranti.

Ma, a fronte di altre difficoltà, di giorno in giorno il Marchese si sentì minacciato dal volume pauroso dei suoi debiti. Già l'anno dopo il matrimonio, nel 1584, aveva dovuto vendere per 2.475 ducati all'anno una parte delle entrate del Contado di Monteodorisio al Magnifico Giovanni Francesco Gargano che, a sua volta, la cedette all'Illustre Matteo di Capua principe di Conca e, due anni dopo, l'11 aprile 1586, l'altra parte del Contado al Marchese di Tursi Galeazzo Pinelli  per 1.800 ducati annui. L'anno prima, 1585, per 140.000 ducati aveva venduto a Giacomo Buoncompagni le signorie di Arpino, Roccasecca ed Aquino ed ancora, l'anno precedente, dal Duca d'Urbino aveva ottenuto altri 5.000 ducati. Nel 1590, di nuovo, la stessa Lavinia fu costretta a chiedere al fratello la somma di dodicimila scudi. Contemporaneamente, i due ministri del Marchese, Paolo Teggia e Filippo Molza, favorirono abilmente l'aumento della mole già ingente del suo debito al fine di spossessarlo dei suoi beni.

Nel 1592 il Marchese cominciò a risentire tutti gli effetti delle fatiche spese nelle sue imprese militari: vertigini ricorrenti ed indizi manifesti di paralisi. Fu in pericolo di vita con la febbre petecchiale tanto che Lavinia si recò a Loreto ad implorare la Vergine per la guarigione del marito. Per tutto l'anno il Marchese si trovò impegnato come testimone in una questione d'onore fra il duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, ed il principe di Parma, Ranuccio Farnese. Il dissidio si complicò tanto da richiedere l'intervento del Papa e del re di Spagna che chiamarono il duca d'Urbino a fare da paciere, dissidio faticosamente ricomposto, grazie anche all'intervento personale di Lavinia.

Il 27 maggio 1593 Lavinia, diretta per la prima volta verso Vasto, si fermò a Pesaro dal fratello che annotò così nel suo Diario: "Si tornò a Pesaro per la venuta della Marchesa del Vasto, la quale, venendo da Goito con donn'Isabella, donna Caterina e donna Maria sue figliuole, arrivò alle 24 hore e partì per Vasto l'ultimo del mese a 20 ore: erano con la Marchesa don Tomaso, suo cognato, et il signor Fabio Gonzaga". Per l'occasione il Duca regalò a ciascuna delle figlie un fiore d'oro "con gioie".

La prima impressione che la Marchesa ebbe del suo storico feudo fu grande, come si legge in una sua lettera al fratello del 9 giugno: "Ho trovato tanto a mio gusto, che per quanto ne avevo inteso da molti, non me lo avrei mai creduto simile, né di sito, né di altro, perché veramente il paese è bellissimo, la terra è grande e civile assai, l'abitazione buona da vero; li vassalli mostrano molti segni d'affettione".

Anche il Marchese, diretto a Vasto, si fermò a Pesaro il 29 giugno, "Arrivò a mezz'hora il Marchese del Vasto, che veniva da Mantova, havendo fatto il camino di Venetia, et seco era don Giovanni, suo fratello naturale; alloggiò alla Vedetta". Finalmente a Vasto un po' di pace in famiglia, a parte le preoccupazioni del Marchese impegnato nello sforzo di trovare continuamente nuove risorse. Per questo, molto spudoratamente, il 18 settembre "in Terra Vasti Aymonis", impose la stipula di uno strumento  che spogliava di fatto l'Università di Casalbordino. Preoccupato poi seriamente per la sua salute, in ottobre andò a Procida "per pigliare i bagni d'Ischia con l'aiuto di Iddio, trattandomi molto male e la strettezza di petto e alcune vertigini che mi vengono", come scrisse alla moglie.

Da Procida alla fine di novembre fece una puntata a Roma col proposito di brigare per la nomina cardinalizia in favore di suo fratello Tommaso. Ma qui, il 2 dicembre, improvvisamente morì nel letto della contessa di Castro per un colpo apoplettico, come ebbero a spettegolare qualche tempo dopo le intercettazioni delle malelingue del tempo. Fu onorato solennemente a Roma dal papa, Clemente VIII di Fano, con un aulico "breve" in latino; a Pesaro dal cognato nella chiesa di San Domenico; a Casalmaggiore da Nicolò Inamio di Trento che,  "professore condotto di umane lettere in questo nostro ginnasio, per ordine del consiglio decurionale, recitò un'erudita e molto applaudita orazione funebre in lode dell'illustre trapassato".

Finì così la storia di questo matrimonio durato appena dieci anni e vissuto lontano dai fasti delle capitali dei rispettivi stati. Per la residenza della famiglia, infatti, il Marchese scelse  il feudo di Casalmaggiore ed anche Lavinia, nata e cresciuta fuori dagli splendori del palazzo ducale di Urbino, da sposata vi capitò solo di sfuggita. Ma, se il Marchese con la morte risolse tutti i suoi guai, a Lavinia spettarono tutti i problemi del marito ed una eredità da brivido: seicentomila scudi di debito e il peso  delle complicazioni per la successione. Per questo intervennero prontamente gli zii, don Innico d'Avalos, vescovo dal 1566, detto il Cardinal d'Aragona, e don Cesare, marito di Lucrezia del Tufo, che, al fine di assicurare l'integrità dei beni della dinastia d'Avalos, corsero al rimedio allora più in uso: un matrimonio "politico" fatto in casa.  Il Cardinale molto spudoratamente propose il matrimonio fra Isabella, primogenita di Lavinia di appena  otto anni, con don Tommaso, zio paterno, già avanti negli anni e per di più anche prete. Don Cesare a sua volta propose Innico, suo figlio, certamente giusto per l'età, ma giovane dissoluto e scapestrato.

L'anno dopo la morte del Marchese, la piccola Isabella fu dichiarata erede universale prendendo il titolo di Marchesa di Pescara, mentre alla mamma restò quello di Marchesa del Vasto.

Per sfuggire alle intricate pressioni di parenti e ministri, Lavinia decise allora di ritornare nel Ducato d'Urbino, dal fratello, che le consentì di stanziarsi a Fossombrone dove, dalla fine di maggio del 1594, la sventurata Marchesa del Vasto riprese un po' di fiato. Ma solo per poco. Il 15 settembre, inaspettatamente, piombarono a Fossombrone lo zio don Cesare e il figlio, promesso sposo. Nello stesso tempo, a favore del matrimonio di Isabella con don Innico, diventato marchese di Pescara, intervenne anche il Papa che chiuse a mamma Lavinia ogni via di scampo. Così proprio a Fossombrone, per espresso volere del Duca d'Urbino, il 6 dicembre 1597, vennero celebrate, in un clima tutto privato e per procura, le nozze fra Isabella, appena dodicenne, e don Innico, assente giustificato perché in servizio presso il re di Spagna.

Il 25 maggio 1598 Lavinia e le figlie partirono per Vasto dove ad attenderle c'erano lo sposo, appena tornato dalla Spagna, il padre don Cesare con vassalli e cortigiani. A casa d'Avalos fu festa grande: finalmente assieme la sposa tredicenne con il V marchese di Vasto. Ma se il matrimonio assicurò il patrimonio e la discendenza dei d'Avalos, non assicurò altrettanto una serena vita coniugale. Don Innico, pure da sposato, continuò incosciente a dare sfogo a tutte le sue scelleratezze, non da ultimo a farsi riconoscere persino lo jus primae noctis. Dissipatore matricolato, isterico, furioso anche nei confronti della moglie, indebitato fino al collo, dominò rovinosamente il suo casato fino al 1632. Lavinia e le altre due figlie, Caterina e Maria, a settembre del 1598 fecero ritorno nel Ducato di Urbino e alla fine dello stesso anno entrarono nel Convento di Santa Chiara . La sventurata moglie di don Felice Alfonso d'Avalos tornò più tardi a Vasto per stare accanto alla sfortunata figlia , ritornò quindi in Urbino portandosi dietro la nipote Lucrezia, figlia primogenita di Isabella, e con lei, su licenza del Duca, si ritirò nel castello di Montebello, non molto distante dalla città ducale. Qui Lavinia consumò tristemente il resto della sua vita e qui morì il 7 giugno 1632, cinque mesi prima del genero Innico.

Rispettando la sua volontà, ad un anno dalla sua morte, la salma fu trasferita nel convento di Santa Chiara di Urbino dove, oggi, su marmo nero e a lettere d'oro si può leggere l'iscrizione della lapide di Lavinia Feltria della Rovere Marchesa del Vasto che riportiamo in versione italiana: A LAVINIA FELTRIA DELLA ROVERE - FIGLIA DI GIUDUBALDO DUCA DI URBINO - MOGLIE DI ALFONSO DE AVALOS MARCHESE DEL VASTO - MAGNATE DI SPAGNA - INSIGNE PER REGALI VIRTU' E PER BELLEZZA - PACIERA - PER ESORTAZIONE DEL ROMANO PONTEFICE E DEL RE CATTOLICO - DEI PRINCIPI ITALIANI - LA QUALE RIMASTA VEDOVA DELL'INCLITO SUO MARITO - CONSACRO' UN CHIOSTRO ALLE VERGINI, I BENI AI POVERI - SE STESSA  A CRISTO - IN FINE RESASI DI TANTO SUPERIORE ALLA GLORIA DEI SUOI ANTENATI - CHIAMATA ALL'ETERNA PACE - LASCIO' AL MONDO TAL FAMA DI SANTITA' - DA FAR INTENDERE COME SI INARIDISSE  NEL MATERNO SUOLO QUEST'ULTIMO RAMO DELLA ROVERE DATO DA DIO - MENTRE PIU' ALTO E PIU' GLORIOSO VIGOREGGIAVA - MORI' NELL'ANNO DEL SIGNORE 1632 SETTANTACINQUESIMO DI SUA ETA'(18).
                                                                                                                  

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