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MASSERIA DESERTA

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Francesco Stanziani, proveniente da Villa S. Maria e Orsogna ma ora docente di lingua inglese presso l'ITC di San Salvo, è un autore che ha già pubblicato due interessanti volumi di prosa poetica (il secondo, ''Crescendo'', per l'editore Cannarsa diVasto, nel 1999). La sua opera si caratterizza per una prevalente, incessante, a volte sofferta riflessione sul rapporto tra individuale e sociale, tra materiale e spirituale e, soprattutto, tra passato e presente. E dunque non poteva uscire da tale ambito di poetica ''Masseria deserta'', 1'ultimo suo lavoro, un testo che già nel titolo si annuncia come legato ai temi della vita abruzzese paesana del bel tempo che fu, in riferimento a un luogo ormai simbolico (in quanto abbandonato e disabitato). Le masserie della valle del Trigno (ciò che vale pure per la valle del Sangro o del Moro) sono perlopiù scomparse o in rovina: eppure basta entrare in una delle poche rimaste per ritrovare il mondo contadino o artigiano dei nostri avi, si può dire l'alito di chi l'ha abitata, ci è vissuto un tempo nella quotidianità. Da questo punto di vista, il testo di Stanziani potrebbe essere accostato a ''La casa dei doganieri'' di Eugenio Montale (ad un ritorno in ''quella casa'' per constatarne il vuoto e la memoria che si allenta); se non fosse che altri sembrano i suoi referenti colti, come il Pascoli delle piccole cose e degli affetti familiari, il Carducci di ''Davanti San Guido'' e di ''Traversando la Maremma toscana'' e poi, in particolare, i poeti crepuscolari. Ai Crepuscolari Stanziani si può accomunare non solo per l'esperienza o modalità di scrittura, quella ''prosa poetica'' che si avvicina così tanto alla ''poesia prosastica'' dei primi, ma anche per l'atteggiamento nei confronti della vita, marcatamente per la nostalgia che riaffiora inevitabilmente (nonostante tutto) per quel mondo d'infanzia circoscritto ma autentico, per le tante cose buone ma semplici, povere addirittura benché appaganti proprio per questo. Una nostalgia fatta di immagini note, di volti e gesti familiari; e poi di colori, voci e rumori, odori, sapori. La conclusione, tuttavia, non può che essere triste, direi cruda, desolata: perché al tempo che passa non c'è rimedio, se non - forse - nella speranza o nell'illusione, leopardianamente destinate a cadere di fronte all'avanzare del prorompente, arido ''vero''. Recensione di Giovanni Artese
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